Mainichi, takusan suburiwo tsukutte kudasai kagami mo mae ni: kagamiwa subarashii sensei desu

M

(Per favore, ogni giorno, fate molti movimenti davanti allo specchio: lo specchio è un maestro meraviglioso)

Come ben sanno non solo i praticanti che seguono la didattica codificata da Saito Morihiro Shihan, ma anche coloro che – sia pure superficialmente si interessano di Aikido – nella didattica dell’Iwama Ryu hanno grande importanza gli esercizi individuali, e tra questi soprattutto i suburi eseguiti con il jo e con il bokken.

In questa particolare tipologia di addestramento, sebbene sia fondamentale la guida di un insegnante preparato, è altrettanto importante che ciascun praticante sviluppi una capacità di auto-osservazione che lo metta in grado di cogliere i particolari da correggere, qualità questa che viene certamente sviluppata utilizzando uno specchio, in maniera da poter osservare i tanti particolari della postura del nostro corpo che ci rimarrebbero altrimenti impossibili da osservare.

Questo kuden è evidentemente esplicito nel suo riferimento ad una “pratica praticata”, ma senza la pretesa di voler essere gli esegeti del pensiero e delle intenzioni del Maestro, ci piace dedicare qualche ulteriore riflessione stimolata dal suo invito.

La prima di queste non può che derivare dal termine “Mainichi” (毎日) che traduciamo con “ogni giorno”, con cui viene evidenziata la opportunità – se non la necessità – che la pratica sia costante e continua e non eseguita “una tantum”. Nella applicazione pratica del concetto evidenziato dal motto latino “gutta cavat lapidem”, Saito Morihiro Shihan ricorda e ribadisce che la pratica non può non essere parte integrante della nostra quotidianità, se vogliamo che questa incida effettivamente nella nostra esperienza. E’ un concetto che il Maestro ha ripetuto spesso, in ogni occasione in cui dirigeva un seminario pubblico o un keiko privato, e chi scrive ancora ricorda le parole di Saito Morihiro Shihan in occasione dell’ultimo koshukai da lui diretto in Italia, quando pur malfermo sulle ginocchia diresse la pratica mostrando la progressione del “roku no jo” lasciandomi strabiliato per la fluidità e velocità dei movimenti che a sua detta erano il risultato della pratica quotidiana dei suburi.

E’ una lezione impressa a fuoco nella mia memoria, al pari di quella ricevuta qualche anno dopo, in occasione di un seminario diretto invece ad Osimo da Paolo Corallini Shihan quando questi – forse cogliendo qualche malumore in chi, più esperto, vedeva sempre iniziare ogni sessione di buki waza con la ripetizione dei suburi – ne ribadì la necessità e l’utilità, spiegando quanto sia inopportuna la infondata supposizione di non avere più necessità di eseguirli come se non ci fosse sempre qualcosa da imparare e migliorare. Quanto queste parole corrispondessero alla realtà mi fu confermato non tanto dalla mia modestissima esperienza personale ma anche dalle parole di un caro Maestro che troppo prematuramente ha interrotto il suo transito terreno, che mi raccontò che il Maestro Paolo Corallini osservava l’esecuzione dei suburi da parte di Saito Morihiro Shihan sempre con estrema attenzione – quasi senza battere neppure le palpebre per non perdersi neppure un istante dell’esercizio – anche dopo diversi decenni di pratica assidua al suo fianco.

Chiudo qui questa parentesi personale, che sono certo troverà eco nella memoria dei tanti che hanno avuto la possibilità e la fortuna di apprezzare di persona gli insegnamenti di Saito Morihiro Shihan per proseguire nella analisi del kuden, passando al termine “takusan” che traduciamo con “molto, un gran numero, abbondante” e scritto con i due caratteri  沢山 che rappresentano – quando presi singolarmente – il primo il concetto di abbondanza e moltitudine (ed anche un fluente ruscello alpestre) ed il secondo una alto monte. Mai come in questi casi un segno vale più di tante parole: se mai ci dovessimo chiedere quanti suburi dovremmo eseguire quotidianamente la risposta sarebbe   “una montagna” ed in maniera costante ed ininterrotta come il flusso di un fiume! E non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro.

Altro termine interessante è “subarashii” che traduciamo come “meraviglioso, splendido, magnifico” e che viene scritto con i caratteri 素晴 che presi singolarmente si traducono “elementare, principio, nudo, scoperto” il primo, rappresentante un pittogramma con due mani che intrecciano dei fili e “mettere in ordine” il secondo, con un pittogramma che rappresenta il sole che illumina delle piante colorate. Anche in questo caso i caratteri sono particolarmente interessanti; molti di noi per rappresentare qualcosa di  meraviglioso, splendido o magnifico avrebbero usato immagini ardite, fenomeni strabilianti, qualcosa di più unico che raro, mentre in questo caso la meraviglia è rappresentata dal sole splendente che illumina una lussureggiante vegetazione, un fenomeno evidente come la trama di un tessuto che tutti noi possiamo ammirare se abbiamo “occhi per vedere”.

Una ultima notazione la dedichiamo alla figura dello specchio, che in realtà meriterebbe una analisi ben più approfondita, essendo un oggetto che da sempre costituisce il simbolo della introspezione e della autoanalisi, sia che si tratti di uno dei mitici simboli del potere imperiale giapponese o della “porta” che varca Alice per dare un seguito al suo viaggio nel Paese delle Meraviglie e diventare una Regina, senza dimenticare il quadro di Dorian Gray e la duplicità del Dr. Jeckill e Mr. Hyde. Limitiamoci qui a dire che – molto prosaicamente – osservare noi stessi allo specchio ci offrirà notevoli suggerimenti per migliorare la nostra pratica ma – soprattutto – ci eviterà di distrarci osservando gli altri compagni di pratica intorno a noi, memori dell’evangelico detto che ci invita a non preoccuparci troppo delle altrui pagliuzze quanto della trave (o – per rimanere in tema – del jo) nel nostro occhio, con l’esplicito invito a non giudicare per non essere giudicati.

Anche in questo caso, Oriente e Occidente si incontrano, e al celebre motto dell’Oracolo di Delfi che ci spiega che solo dopo aver conosciuto noi stessi potremo conoscere l’universo, fa eco il kuden del Fondatore, che ci ricorda che la vittoria più importante è quella su noi stessi.

Ben miope (quando non in malafede…) è chi veda nella costante ripetizione dei suburi un modo di limitare la crescita tecnica dei deshi permettendo al Sensei di rimanere nella sua zona di comfort; la verità  è che dovremmo ogni giorno guardare con occhi nuovi ciò che crediamo di conoscere già bene, e questo vale per ogni avvenimento della vita quotidiana, che sia la pratica sul tatami, l’impegno lavorativo o una situazione sentimentale, perché solo così riusciremo – ogni giorno – a trovare nuovi stimoli ed entusiasmi. Quello che è “l’altro da noi”, che sia la nostra immagine nello specchio, il partner della pratica, il collega di lavoro o la persona a cui siamo uniti da un legame affettivo ci influenza ed è influenzata da noi, ed osservarla con attenzione e senza pregiudizi ci permetterà di conoscere alcuni aspetti della nostra personalità che altrimenti rimarrebbero a noi ignoti. Scopriremo così, ancora una volta, quanto sia vero che in matematica uno più uno fa due, mentre in Aikido uno più uno fa (o dovrebbe fare…) sempre Uno.

Articolo a cura del M° Carlo Caprino

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