Il rituale del saluto, un momento di attenzione e consapevolezza

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A cura del M° Carlo Caprino

Come ben sanno coloro che frequentano un Dojo o praticano con una certa costanza una disciplina tradizionale di origine orientale, prima, durante e dopo la pratica stessa è opportuno rispettare una serie di regole che consentono a tutti una migliore fruizione della pratica stessa.

La maggior parte di queste regole non sono poi molto differenti da quelle che adotteremmo in un qualsiasi contesto sociale; altre sono specificamente legate alle peculiarità della disciplina praticata e spesso adottate per garantire l’incolumità del singolo e dei suoi compagni di pratica. È sempre bene ricordare che nel momento in cui una persona è sul tatami, diviene membro di una comunità che osserva regole particolari e precise, comuni a tutti i luoghi in cui si pratica Aikido, con l’eccezione di piccole usanze, che possono variare da Dojo a Dojo, ma sempre in ottemperanza allo spirito Aiki.

Rammentando che il Dojo è letteralmente il “Luogo in cui si pratica la Via”, l’insegnante, gli allievi e i collaboratori sono tenuti al rispetto per il luogo e per le persone che vi si trovano. In ciò non vi è nulla di più o di meno di quanto conforme alle regole delle buone maniere e di educazione: vi sono solo delle regole particolari derivate dalla tradizione giapponese, che sono considerate importanti per il prosieguo della Via sia tecnica che spirituale.

Al Reigi sono dedicati innumerevoli articoli e ne trattano ampiamente due dei libri che abbiamo recensito, scritti rispettivamente da Riccardo Canavacci Sensei (https://www.taai.it/2023/dojo-e-reigi-il-manuale-di-riccardo-canavacci-che-mette-insieme-forma-e-sostanza/) e da Enzo Di Vasto Sensei (https://www.taai.it/2024/reishiki-non-solo-una-questione-di-forma-di-enzo-di-vasto/), a conferma della importanza e ampiezza di questo argomento. Tra le tante regole e comportamenti richiesti, ce n’è uno che a volte suscita un po’ di perplessità e qualche imbarazzo nei neofiti; parliamo del rituale del saluto al Kamiza che apre e chiude una sessione di pratica e che alcuni vedono come una sorta di atto di sottomissione o un atto di adesione ad una esotica setta religiosa. Non si tratta di niente di tutto questo, ovviamente, quanto piuttosto di un adattamento di un rituale comunemente adottato quando si visita un Jinja (神社), ovvero un santuario shintoista giapponese.

Prima di accedere ad un tempio ci si dovrebbe lavare le mani e la bocca in modo da accedere “purificati” alla zona sacra; allo stesso modo, prima di salire sul tatami – oltre a lavarci i piedi per un elementare rispetto delle basilari regole di pulizia e rispetto per i nostri compagni di pratica – sarebbe bene “ripulirci” da pensieri e preoccupazioni legati a quanto accade fuori dal Dojo.

Allineati in seiza sullo shimoza, seguendo le indicazioni del Sensei che dirige la pratica, effettuiamo un saluto che si articola in tre fasi, indicate come “ni rei, ni hakushu, ippai (二礼,二拍手,一拝), ovvero: inchinarsi due volte (ni rei), battere le mani due volte (ni hakushu) e unire le mani in segno di rispetto (ippai).

Come in altre occasione, una rapida ma esaustiva analisi dei kanji sopra indicati potrà fornirci qualche ulteriore stimolo di riflessione.

礼 (rei) è la forma semplificata e antica di禮, che è un composto fono-semantico ; il carattere semantico礻è una forma semplificata di 示 che si pronuncia “gi” nella lettura Go-on; “ki” nella lettura Kan-on e “shimesu” nella lettura Kun. Il carattere originario è un pittogramma che rappresenta un altare e può essere tradotto con i significati di: “mostrare, evidenziare, indicare, esprimere, esibire, rendere importante”. La parte fonetica è rappresentata dal carattere 豊 che si pronuncia ”fu” nella lettura Go-on, “hō“ nella lettura Kan-on e “ yutaka” nella lettura Kun. Il carattere è a sua volta un composto ideogrammatico risultante dell’unione di 壴 (“chū” o “shu”), pittogramma rappresentante in origine un tamburo con una base, un corpo, due estremità e delle piume decorative nella parte superiore, a cui si affianca 玨 (“koku” o “kaku”), pittogramma che riproduce due pezzi di giada uniti insieme. Il risultato finale esprime il concetto di “rigoglioso, generoso, abbondante, eccellente, ricco”. Tirando le somme possiamo quindi affermare che 礼 può essere tradotto –  semplificando ai fini di quanto ci interessa – come “saluto, inchino, cerimonia, ringraziamento, compenso”.

拍手 ( hakushu) è evidentemente un composto di due caratteri; quello a destra è un pittogramma che rappresenta una mano con le dita distese (“shu” nella lettura Go-on e “te” nella lettura Kun); quello a sinistra 拍 è ancora una volta un composto fono-semantico in cui il radicale a sinistra indica ancora una volta una mano, mentre quello a destra con valenza fonetica come “haku”, preso individualmente indica il colore bianco. Mano contro mano quindi, per indicare appunto il gesto di applaudire o battere le mani.

拝 esprime il gesto di chinare la testa in segno di rispetto o adorazione ed è composto da due pittogrammi; quello di sinistra 扌è ancora una volta un pittogramma che rappresenta una mano, mentre quello di destra è la versione semplificata del pittogramma che rappresenta dei ciuffi di erba. Il significato complessivo è quello di una mano che tiene delle erbe offerte in dono con il significato di pregare o adorare una divinità.

Vediamo quindi che il terzo inchino finale, seppure apparentemente uguale ai due che lo precedono, è espresso con un carattere diverso; non è il caso di addentrarci in ulteriori approfondimenti, ma possiamo dire che i prime due inchini siano una sorta di saluto ai Maestri effigiati sul kamiza, mentre l’inchino finale – solitamente più profondo e mantenuto per un tempo leggermente più lungo rispetto ai due precedenti – sia una forma di preghiera alla divinità, richiamata (o “risvegliata”) dal doppio battito delle mani.

Come detto, può accadere che in qualche Dojo vengano adottate più o meno piccole differenze rispetto ad altre realtà, ma possiamo comunque evidenziare alcuni aspetti generalmente condivisi, pur nella consapevolezza che ogni regola ha la sua eccezione.

Quando si attende in posizione di seiza, le mani andrebbero poggiate aperte vicino al bacino o sulle ginocchia. Possiamo nei fatti individuare quattro tra le posizioni più comuni, ovvero:

– mani aperte, con le dita distese poggiate sulle cosce, vicino alle ginocchia.

– mani aperte, con le dita distese poggiate sulle cosce, vicino al bacino.

– mani aperte, con le dita distese poggiate sulle cosce, vicino al bacino, con il pollice poggiato sotto il palmo.

– mani chiuse a pugno poggiate sulle cosce, vicino al bacino, con il pollice racchiuso all’interno delle dita piegate.

Tra le varie motivazioni di queste diverse posizioni, possiamo individuare una scelta che va da un atteggiamento evidentemente pacifico e fiducioso nel primo caso sino ad un atteggiamento diffidente e cauto nell’ultimo; questo perché molte Scuole marziali tradizionali hanno nel loro curriculum delle tecniche di attacco e difesa (ad esempio, lo Oshikiuchi 御式内 della Daito Ryu Aikijujutsu) adatte alla applicazione all’interno di ambienti chiusi come le stanze di castelli o palazzi, in cui è frequente assumere la posizione di seiza. In questa situazione (ma anche in molte tecniche eseguite in posizione eretta) alcune volte l’attacco inizia e si concretizza con una presa del pollice dell’avversario, poiché una frattura o lussazione di questo dito – oltre all’evidente dolore – causa di fatto la quasi impossibilità di utilizzo anche delle altre dita per impugnare un’arma. Ne discende quindi la necessità di allontanare le mani e, per estrema cautela, di proteggere il pollice da eventuali, possibili improvvisi tentativi di presa da parte di chi ci sta di fronte.

Nel piegare il busto per eseguire l’inchino, dovrebbero scendere verso il tatami prima la mano sinistra e poi la mano destra. Anche in questo caso si tratta di una cautela adottata contro eventuali attacchi improvvisi; poiché le armi da taglio portate infilate nella obi sul fianco sinistro quali katana e wakizashi, così come eventuali pugnali nascosti tra le pieghe della giacca all’altezza dell’addome, vengono solitamente impugnati con la mano destra, è opportuno che questa sia l’ultima a poggiarsi per terra in modo da poter rapidamente afferrare un arma per difendersi da un attacco improvviso.

Le due mani dovrebbero scendere sul tatami sino a formare una specie di triangolo con le punte di pollici e indici a contatto, poggiate sul tatami ad una distanza tale che al termine dell’inchino la fronte ci si dovrebbe poggiare sopra (una precauzione pratica per evitare di sbattere la testa sul pavimento nel caso in cui qualche malintenzionato la spingesse bruscamente in basso mentre ci inchiniamo).

Quando si eseguono gli inchini, bisognerebbe piegarsi sino quasi a toccare con la fronte il tatami, mostrando gratitudine e umiltà verso le immagini dei Maestri e il Kami che si ritiene sia presente nello Shinden.

Quando si battono le mani, le braccia dovrebbero essere stese orizzontali e parallele al tatami e le mani tenute all’altezza del petto davanti al corpo con i palmi rivolti l’uno verso l’altro. La mano destra dovrebbe essere tirata leggermente indietro di un paio di centimetri rispetto alla sinistra e poi – con le mani leggermente a coppa – bisognerebbe battere i palmi due volte, emettendo un suono vibrante per purificare l’area da qualsiasi energia stagnante o indesiderata. Idealmente il primo applauso serve a scacciare le entità negative, mentre il secondo a richiamare le energie positive. In questo gesto si riproduce anche la dualità della natura (In/Yo in giapponese e Yin/Yang in cinese), con l’intenzione di inviare e ricevere energia e la consapevolezza di dare e ricevere, tanto nella pratica che in ogni momento della vita quotidiana.

L’ultimo inchino dovrebbe essere vissuto come una “chiusura” di questo rituale, eseguito con un sentimento di gratitudine per l’insegnamento che riceviamo sul tatami e i doni che riceviamo dalla vita.

Da quanto abbiamo detto sopra quindi, appare evidente che il momento del saluto al principio ed al termine della sessione di pratica è particolarmente importante e dovrebbe essere vissuto con profonda consapevolezza e presenza, a partire dalla attenzione in cui ciascun praticante occupa il posto previsto nella fila sullo shimoza. È bene ribadire che questa ultima nota non vuole rimarcare un principio gerarchico tout court, ma piuttosto ricordare un modo d’essere che invita a rispettare la maggior esperienza di colui che si trova alla propria destra e nello stesso tempo ad essere di esempio e aiuto per chi si trova alla propria sinistra. È un voler porre l’attenzione ad un reciproco senso di responsabilità e a un modo di aiutarsi l’un l’altro.
In ogni caso, va sottolineato l’elemento che deve essere comunque presente, ovvero la consapevolezza del proprio inserimento in una realtà “altra” rispetto a quella “comune” vissuta fuori dal Dojo e il senso di ringraziamento reciproco nel ritrovarsi. in comunione di intenti per la progressione tecnica e morale.

By admintaai

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