Gambariai keiko wo kinshishimasu

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Il testo in giapponese riportato in questa immagine è 頑張り合い稽古を禁止します(Gambariai keiko wo kinshishimasu) ed ha un significato molto interessante, che dovremmo ricordare ogni volta che ci accingiamo a cominciare la nostra pratica sul tatami.

Dobbiamo la memoria di questa immagine a Bill Essig, che scattò questa foto nel marzo del 1992, immortalando questo avviso scritto da Patricia Hendricks Sensei su incarico di Saito Morihiro Sensei.

Gambariai” può essere tradotto come “lottare l’uno contro l’altro” ma nel verbo giapponese c’è una sfumatura che viene persa nella traduzione, ovvero quello che è vietato è che due persone lottino l’una contro l’altro per provare a vedere chi è il più forte. Non si tratta solo di Uke che resiste alla tecnica di Tori, in questa frase è prevista la responsabilità di entrambi i partner nell’evitare questo tipo di comportamento inutilmente competitivo.

Tra forza ed energia

Analizzando il termine, possiamo scomporre i caratteri in questa maniera, tenendo ben presente la difficoltà nel rendere appieno i diversi significati di ciascun ideogramma:

頑 (Gan) testardo, sciocco, fermo.

張 (Ba) allungare, forzare.

Da questi due kanji si compone 頑張る(Ganbaru) con derivazione incerta: o con un cambio di senso da 眼張る (Ganbaru) con il significato di “Tenere d’occhio qualcosa, fissare qualcosa” oppure con un cambio nella lettura da我に張る (ga ni haru), che letteralmente possiamo tradurre come “attaccarsi ai propri desideri, insistere sul proprio punto di vista”.

Il senso originariamente doveva essere “testardo, ostinato” con sfumature negative, mentre il significato positivo moderno di “persistere, sopportare” si è affermato dalla fine del periodo Edo nel 1868.

Poiché viene usato il carattere 頑 (Gan) per esprimere un senso di testardaggine e la lettura storica con caratteri kanaぐわんばる (Gwanbaru) deriva dall’uso di questo carattere 頑 e non è correlata a nessuna delle derivazioni sopra previste, possiamo dire che l’ortografia 当て字 è del tipo ateji, un termine che letteralmente si traduce come “caratteri assegnati” ed indica kanji che sono stati scelti arbitrariamente per scrivere un prestito o una parola di origine giapponese con i quali non hanno una connessione storica o etimologica, tanto che spesso i caratteri vengono scelti con l’intento di implicare un’etimologia immaginaria o falsa.

Gli ateji sono anche scelti per rendere i nomi propri non cinesi o giapponesi, come i nomi occidentali, sempre con l’intento di usare i kanji per conferire a un nome un aspetto diverso o migliore.

A complicare la faccenda possiamo anche notare che alcune fonti usano sia 頑張る che 眼張る come ortografia per “persistere, sopportare” mentre altre fonti li separano come voci completamente separate.

Ganbatte, un termine con molti significati

Un utilizzo abbastanza noto di questo verbo è nella forma congiuntiva 頑張って (Ganbatte) con il significato di “tenere duro, aggrapparsi, persistere, non arrendersi ”; semanticamente si tratta di un incoraggiamento bonario sotto forma di un blando imperativo, a cui spesso si aggiunge ~てください ( -te kudasai) con il significato di  “per favore, fallo per me”.

Proprio per il suo uso frequente, conviene spendere qualche parola in più  su questa espressione  che come abbiamo visto ha diversi significati, tra cui “fai del tuo meglio, buona fortuna, resisti,dai, non mollare, continua”; è quindi una espressione che andrebbe più correttamente impiegata come un incoraggiamento a persistere in una impresa già cominciata e che si rivela particolarmente impegnativa, piuttosto che come augurio di buona fortuna per una azione che non abbiamo ancora cominciato, tanto che – in un altro senso – può essere impiegata anche per esprimere la convinzione/augurio che c’è sempre qualcosa di meglio alla fine di tempi difficili e che per raggiungere buoni risultati è necesario lavorare tenacemente e con costanza, sopportando con coraggio le difficoltà e impegnando tutto se stesso in un obiettivo per portarlo a termine.

Occorre ancora evidenziare che come forma congiuntiva, questa è la forma più comunemente usata del verbo quando si parla direttamente a una singola persona, mentre quando si fa il tifo per una squadra o un gruppo, la forma dell’imperativo 頑張れ (Ganbare) è più comune.

Dallo scontro al confronto

Continuando l’analisi della nostra frase, troviamo la sillaba hiragana り (ri) che ha il suo equivalente in katakana in リ(ri) ed il kanji 合 ben noto a tutti i praticanti di Aikido, qui impiegato per esprimere in concetto di una azione che viene svolta da due soggetti in modo reciproco.

Proseguendo troviamo un altro paio di caratteri molto interessanti ed abbastanza noti ai praticanti di arti marziali (e non solo), ovvero:

稽 (Kei), che possiamo tradurre come “pensare, considerare, riflettere, allenarsi, praticare

古 (Ko) che possiamo tradurre come “antico, tradizionale, degli antenati

la cui traduzione letterale è quindi “praticare tecniche antiche” e qui utilizzato nel senso di “pratica, allenamento, addestramento”, come spesso accade nel caso di discipline antiche o comunque collegate a origini tradizionali.

Andando ancora avanti, incontriamo il carattere を(wo), che indica l’oggetto diretto dell’azione oppure dell’espressione, poi 禁 (Kin) nel significato di “proibizione”, 止 (Shi) nel significato di “fermare, terminare” espresso dal pittogramma di un piede presente nell’ideogramma di 武 “Budo” ed infine します。(Masu) nel significato di “fare, eseguire”.

Iwama monogatari

Quello che rende particolarmente interessante questa espressione e la immagine che la propone è la storia che racconta, ben nota a chi ha frequentato il Dojo di Iwama quando Saito Morihiro era il custode dell’Aiki Jinjia e dirigeva la pratica quotidiana.

Saito Sensei usava spesso l’espressione “Sunao no kimochi” con il significato di avere un sentimento sincero durante la pratica del ruolo di Uke, in modo da eseguire ogni tecnica come se fosse la prima volta.

In quel periodo un allievo straniero si era recato presso lo Ibaraki Dojo e bloccava tutti i suoi partner durante la pratica, e questo infastidiva Saito Sensei, anche perché altri si comportavano alla stessa maniera, ma questo soggetto era diventato la proverbiale goccia che aveva fatto straripare il vaso della pazienza di Saito Sensei perché questo praticante – conoscendo in anticipo quale tecnica avrebbe dovuto subire come Uke, di fatto bloccava ogni azione del Tori di turno e così alla fine Saito Sensei lo escluse dal tatami per un certo periodo di tempo, finché questo soggetto non capì la lezione e tornò a praticare in modo più rispettoso.

Pur nella essenzialità dello scritto, questo avviso è importante perché ci richiama ad uno dei concetti di base dell’Aikido di Iwama, ovvero sulla opportunità di eseguire la nostra tecnica nel momento in cui il nostro partner esegue la sua, rispettando il timing stabilito da chi dirige la pratica. Così facendo l’attaccante sarà ancora impegnato ad eseguire il suo attacco e non potrà opporsi alla nostra azione. Nel caso in cui Uke faccia poi resistenza, in linea generale bisognerebbe sfruttare la sua forza a nostro vantaggio e non contrastarla.

Praticare con un Uke che fa resistenza può essere una parte importante e proficua del nostro addestramento, ma è opportuno che ciò avvenga tra compagni che si conoscono bene, in maniera da poter agire con reciproco vantaggio rimanendo in una situazione in cui è sufficientemente garantita l’incolumità di entrambi, senza che il confronto degeneri o in una violenta rissa o in una sorta di tiro alla fune in keikogi. 

A cura di Carlo Caprino

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